Etnopsichiatria

La coesistenza di mondi e culture differenti ha determinato lo sviluppo dell’etnopsichiatria, territorio di confine tra discipline diverse, dalla psicologia all’antropologia, dalla sociologia alla geografia, dalla teologia alla medicina.

È difficile trovare, infatti, una semplice definizione per questo ramo della psichiatria, che tenta di tener conto della cultura di appartenenza dell’individuo, con i suoi miti, valori e concezioni religiose, ma anche del nuovo contesto sociale di inserimento, delle relazioni interpersonali, ecc.
In altre parole l’etnopsichiatria si occupa di indagare il disagio psichico dei pazienti provando a “leggere” il disturbo dall’interno della cultura d’origine.

A Niguarda è nato nel 2000 il Centro di Consultazione Etnopsichiatrica, tra i pochissimi centri a livello nazionale offre interventi diretti di sostegno psichiatrico a immigrati che arrivano dopo ricoveri in neuropsichiatria, dal pronto soccorso, da consultori, dall’ufficio stranieri ecc. La vera forza del centro, infatti è che esso è inserito in una rete assistenziale che lavora in modo coordinato con il territorio.
Oltre a psichiatri, psicologi e educatori, il centro si avvale della collaborazione di mediatori linguistico-culturali, essenziali per l’interpretazione “culturalmente orientata” dei casi.

 

Curare "le cicatrici della psiche" nei migranti

Viaggi interminabili in cui si rischia la vita e in cui spesso ci si ritrova faccia a faccia con situazioni di shock che possono minare il benessere psicologico della persona: c’è chi subisce torture, chi sopravvive alla morte di amici, parenti o dei compagni di viaggio. Ci si occupa anche di loro, i migranti, nel centro di Etnopsichiatria di Niguarda. 

 

Una difficile integrazione può essere la causa del migrante "psicologicamente vulnerabile"

Non è facile riconoscere i sintomi di questi traumi, che vanno dall’insonnia alla dissociazione mentale, dal rifiuto del cibo alle idee di persecuzione. Inizialmente si trattava di migranti economici, persone “resistenti” alle difficoltà, selezionate dalle famiglie per trovare lavoro all’estero e mandare i soldi a casa. Solo negli ultimi tempi, dalla crisi libica del 2011 in poi, da noi arrivano rifugiati e vittime di tortura.

 

Il peso delle differenze culturali nell'approccio ai singoli casi

Un giorno arriva al centro un ragazzo senegalese che non riesce a dormire per via dei frequenti flashback con cui rivive l’omicidio del fratello. La causa, secondo lui, è il malocchio. I medici si limitano a dirgli che il marabù, lo stregone che toglie i malefici,non ce l'hanno a disposizione, però hanno delle medicine in grado di farlo sentire più tranquillo e fronteggiare meglio il suo malessere. “Le vuoi prendere?” gli chiedono. Lui li guarda perplessi, perché nella sua cultura il guaritore ti obbliga ad accettare i suoi rimedi, non è una libera scelta. Allora gli specialisti aggiungono: “Prova, tra una settimana torni e ci dici se ha funzionato”. Le differenze culturali indubbiamente hanno un peso considerevole e non possono essere trascurate.

 

Non solo farmaci

Ci sono anche le sedute di psicoterapia per “sciogliere i ricordi dolorosi” che portano i migranti a reagire talvolta con aggressività. E anche in questo caso fissare un appuntamento non è automatico: la misurazione del tempo per uno straniero che soffre di disturbi psicologici può essere molto variabile. In genere per le sedute, più che un orario preciso preferiamo dire: “Se passate ci trovate qui”. In certi casi ti mostrano le cicatrici, ma non vogliono raccontare quali torture hanno subito. Magari poi si aprono davanti al medico legale: concentrandosi sulle ferite del corpo riescono a raccontare anche gli incubi dell’anima.

Più uomini che donne

In realtà curiamo meno donne che uomini, perché le vittime di tratta seguono un percorso di riabilitazione diverso, che comprende già l’assistenza psicologica. Non solo: secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il 90% delle donne che arrivano in Italia sono vittime di stupro e ha già subito violenza, per la maggior parte in famiglia. Si tratta quindi di un fenomeno molto diffuso, ma non necessariamente legato alla migrazione.

 

Ci sono storie che lasciano il segno...

Da poco abbiamo seguito una ragazza di 25 anni che parla benissimo 4 lingue. Nata in Camerun, è stata costretta a prostituirsi in India e a diventare la quarta moglie di un uomo. Incinta, ha abortito per le percosse del marito e ha chiesto aiuto a una struttura religiosa che le ha trovato riparo in Italia. Appena arrivata a Milano, è andata in un centro d’accoglienza con molte donne e bambini, cosa che le faceva rivivere il trauma dell’aborto. Ha dato subito segni di grave patologia psichiatrica che non aveva mai avuto prima, tra cui deliri di persecuzione: sentiva in continuazione le voci degli uomini che avevano abusato di lei. Dopo il primo incontro d’emergenza abbiamo cominciato a ricostruire la sua storia. Ultimamente è riuscita a ottenere l’asilo e ha fatto un corso per diventare pasticcera. I sintomi psicotici sono quasi scomparsi, motivo per cui sta anche riducendo le medicine. Quando la vediamo siamo tutti molti soddisfatti, perché lei è il segno che curare il trauma, prima che diventi cronico, è un altro modo per guardare al futuro.

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